Sono trascorsi solo pochi giorni da quando i lavori di allestimento del nuovo ufficio accanto al mio studio sono terminati, con l’esposizione di una piccola insegna in ottone sulla porta di ingresso. Accanto all’incisione di un veliero d’altri tempi, ci sono riportate la sigla e i riferimenti di una nota compagnia di assicurazioni.
L’ufficio si trova proprio accanto al mio. Prima c’era un trafficatissimo studio tecnico: un viavai continuo di gente movimentava le mie giornate piuttosto solitarie, trascorse interamente al computer.
In effetti dal mio studio si poteva ascoltare quasi ogni dialogo proveniente dall’ufficio accanto, tanto è sottile la parete in comune. C’è addirittura una porta, adesso sigillata, che inizialmente li rendeva comunicanti.
Anche oggi sono al lavoro, seduto alla mia scrivania. Accanto a me, un vecchio ventilatore, riesumato per salvarmi da una tragica situazione: aria condizionata fuori uso per un problema idraulico e temperatura esterna ben oltre i trenta gradi in queste giornate assolate di fine luglio.
Per cercare di sopravvivere alla situazione ho optato per una maglietta leggerissima e pantaloncini corti, tanto non sono previsti appuntamenti con clienti vari durante la giornata. Malgrado tutto sono madido di sudore, con il computer che contribuisce a far aumentare la temperatura nello studio. Così mi alzo dalla sedia e provvedo ad aprire la finestra, abbassando con cura le veneziane. La situazione, in termini di temperatura effettiva, non cambia di molto, ma la penombra nel locale lascia immaginare un miglioramento, in realtà solo fittizio. Mentre torno a sedermi per riprendere il lavoro, inaspettatamente sento bussare alla porta dello studio. Provando ad immaginare quale appuntamento abbia potuto dimenticare, mi avvicino alla porta, e apro.
“Scusami tanto per il disturbo, ma ho un problema!”
Non ho nemmeno completamente aperto la porta, che dall’altra parte si leva questa invocazione. La frase proviene da Anita, la nuova vicina della compagnia di assicurazioni. Di fianco a lei due voluminosi scatoloni dall’aria molto pesante e, appoggiata ad essi, la borsa di un computer portatile.
Lo sguardo però torna immediatamente ad essere calamitato dagli occhi di Anita. Profondi, vivaci, penetranti. L’ho subito notata, l’altro giorno, quando nella nuova sede dell’agenzia di assicurazioni hanno invitato i pochi vicini ad un veloce rinfresco di inaugurazione. Niente clienti, solo una decina di persone, il boss della compagnia di assicurazioni, e naturalmente lei.
Ci siamo presentati, un saluto cordiale, qualche parola di circostanza. Poi due chiacchere con il boss, osservando l’ufficio già perfettamente arredato, ma con scrivanie e scaffali ancora vuoti. Ma in quei cinque minuti è praticamente stato impossibile distogliere lo sguardo da lei, mentre continuava ad intrattenere altri ospiti.
I capelli mori, mossi, calati su un abito a fiori aderente e tacchi eleganti che ne slanciavano ancor più il profilo, Anita era perfetta. Il sorriso che spesso le illuminava il viso durante la conversazione esercitava su di me un’attrazione incredibile. Mi sentivo quasi imbambolato.
E salutando il gruppo, dopo un po’, ritornando al mio studio, non ho potuto rinunciare ad un ultimo sguardo verso di lei. E i suoi occhi, sorprendentemente, erano lì, proprio infilati dentro i miei. C’era anche quel fantastico sorriso, ma nessun altro gesto a rafforzare il suo saluto.
Ho proprio avuto l’impressione che sorridesse per il fatto di aver raccolto anche questo mio ultimo sguardo, rispondendo però stavolta ad esso. Sicuramente si era accorta di essere stata osservata da me con insistenza per tutto il tempo, ma solo alla fine ha voluto farmelo capire, quando forse non si sarebbe più potuto dir nulla.
Ed ora eccola di nuovo qui, davanti a me, inaspettatamente. Tutte le altre attività del complesso di uffici e studi dove mi trovo a lavorare sono chiusi per le ferie estive. Solo io approfitto della calma di questo periodo per recuperare un po’ di lavoro arretrato, in attesa di ritagliare qualche giorno di vacanza anche per me. La sventura dell’impianto di aria condizionata fuori uso è quindi doppia, visto che chissà quando qualcuno deciderà di intervenire.
Osservo Anita ferma davanti a me e capisco subito che quell’aria imbambolata del primo incontro è tornata a dipingersi sul mio viso. Resto ancora un attimo a bocca aperta, cercando di riprendermi dalla sorpresa, ma l’impresa si dimostra subito davvero ardua.
Anche stavolta lei è elegantissima, ma l’abito che indossa è estremamente leggero e informale. Una specie di caftano dalle tonalità del giallo e del rosso, molto trasparente. Mi rendo conto che in effetti si intravede la presenza di un bikini arancio, che rivela progetti molto chiari.
“Dovrei sistemare delle cose urgenti in ufficio” riprende lei, visto che io non riesco a tirar fuori una sillaba “Ma non riesco ad avviare il condizionatore, e il caldo è davvero insopportabile! Puoi darmi una mano?”
“Ehm, ciao… Vorrei davvero poterti aiutare, ma penso ci sia poco da fare. L’impianto centralizzato è guasto da ieri e anche da me ho lo stesso problema: guarda come sono ridotto!”
Bene. Ce l’ho fatta! Sono riuscito a dire qualcosa di sensato, addirittura senza balbettare. Non è stato facile, considerando che da alcuni giorni l’immagine di quella ragazza continuava a riaffacciarsi nei miei pensieri, con conseguenti effetti catastrofici sulla mia concentrazione nel lavoro. Mi capitava di ritrovarmi con gli occhi sbarrati rivolti al soffitto, fissi nel nulla, con il sorriso di lei che continuava a ripetersi sempre più coinvolgente. Per quanto tempo fossi rimasto, di volta in volta, inchiodato in quello stato era impossibile da definire, ma la cosa iniziava a preoccuparmi.
“Accidenti” riprende Anita, sollevando lo sguardo e gettandosi una mano in fronte “Ora dovrò fare sicuramente una sauna! Guarda quanta roba da sistemare negli scaffali… Devo farcela assolutamente prima di sera, poi non avrò più modo di tornare qui fino alla ripresa del lavoro!”
Cosa può dire un uomo in certi casi? Cosa può fare? Nel mio caso la reazione è istintiva, immediata, lontana anni luce dallo stato di torpore di pochi attimi prima: “Aspetta Anita, ho un’idea…Potremmo fare in questo modo,” proseguo io, “Potrei prestarti il mio ventilatore per un po’, mentre vado a fare qualche commissione che avevo in programma. Non è un granché, ma meglio di niente…”
Anita sorride. “Grazie! Se davvero non è un problema per te, mi faresti una grandissima cortesia!”
“E’ un piacere poterti aiutare… Vieni, spostiamo il ventilatore.”
Entriamo nel mio studio, dirigendoci nella penombra verso uno di quegli attrezzi dotati di una base, un’asta di circa un metro e alla sommità la ventola che silenziosamente girà, ruotando alternativamente sul suo asse.
“Dio, che bello!” Anita si avvicina al flusso d’aria e si porta le mani tra i capelli: io sono rimasto appena un po’ indietro e vedo le sue spalle, i suoi fianchi, in quel movimento così sensuale, accentuato dal controluce derivante dalle veneziane socchiuse e dall’abito che si muove leggero al flusso dell’aria.
Lei si gira, mi guarda ancora fisso negli occhi, mi prende una mano e mi avvicina a sé: “Sei davvero così gentile… vieni…”
Mi sento trascinare tra le sue braccia. Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovo avvinghiato al suo corpo, mentre le nostre bocche si uniscono. Non è un bacio. Iniziamo a scambiarci quasi dei morsi, sulle labbra, succhiando le lingue che si intrecciano con energia, con impazienza.
Le mie mani prendono a muoversi sul suo corpo. È un’esplorazione, una ricerca dei suoi seni, dei suoi fianchi, del suo viso ormai incollato al mio.
Ormai i nostri corpi sono tesi in uno stato di eccitazione irreversibile. Continuando a baciarla inizio a sfilarle l’abito. Anita mi aiuta: solleva il caftano verso la sua testa svelando il suo corpo sudato, caldo, teso, ansimante. Mi chino, inizio a baciarle l’ombelico, con le mani che salgono verso il suo seno, già libero del costume da bagno. Il bacio si trasforma in un lento strofinare del mio viso sul suo corpo. Assaporo il profumo della sua pelle, il contatto con i suoi capezzoli, che inizio piano a succhiare.
Lei è lì, ferma in piedi, le gambe appena divaricate, gli occhi chiusi. Le sue mani sono sulla mia testa e piano sento che mi spingono in giù. Chiudo gli occhi, mi abbasso inginocchiandomi a terra, e le sfilo lo slip. Inizia un lento avvicinamento al centro del suo piacere, con la mia lingua che percorre le sue cosce tornite, si accosta al suo ventre e poi risale fino di nuovo all’ombelico.
Le carezze sulla mia testa diventano più energiche, poi la stretta che mi conduce fin là, dove i miei baci diventano morsi, la lingua si insinua prepotente fin dove riesce a spingersi, per poi succhiare fino allo sfinimento…
… E di nuovo bussano alla porta!
Sobbalzo. E sobbalzando mi rendo conto di essere sulla mia sedia… Come sulla mia sedia!? Accidenti, mi ero addormentato sulla scrivania. Di Anita nemmeno l’ombra, solo il ricordo intenso di un sogno improvvisamente spezzato…
Qualcuno bussa ancora, attendendo risposta. Confuso, eccitato, stravolto, mi alzo e ripeto, come nel sogno, il breve percorso che mi avvicina all’ ingresso dello studio.
Apro lentamente la porta, quasi tremante per l’emozione.
“Salve, sono Anita, non funziona il condizionatore potresti aiutarmi?”.